Ci sono luoghi reali e luoghi della mente, entrambi possono essere vissuti attraverso una condivisione di spazi e luoghi ‘comuni’. La bellezza di alcuni nostri borghi, ritornati recentemente alla ribalta per la loro naturale vivibilità, per gli spazi ampi, riaccende il tema della rinascita degli stessi. Saremo in grado di gestirli e valorizzarli e renderli ‘moderni’ non nelle più spicciole fattezze ma in un contesto di integrazione umana?
I paesi, svuotati di buona parte delle nuove generazioni in età post-scolastica per motivi di studio e per lavoro, conservano la loro originaria bellezza e continuano ad ospitare la saggezza e la storia nelle mani e nelle menti della popolazione più anziana, adulta e della più giovane che ‘resiste’ con spirito eroico e romantico. Queste considerazioni, suggerite dal mio luogo di origine, San Marco Argentano, muovono nella direzione di un futuro urbano che deve mettere, per evidenza della naturale ‘ospitalità ideale’ degli spazi, al centro l’uomo. Passeggiando per le strade del piccolo borgo calabrese ci si rende conto che molti privati hanno investito – e continuano a farlo – nella ristrutturazione e nella valorizzazione di abitazioni, di attività commerciali, anche con idee originali.
La gente può tornare a ripopolare un luogo che ha i presupposti della vivibilità e della sostenibilità se a questi si aggiunge la capacità di accogliere, anche con investimenti che coniughino la modernità al passato. Ho una sola certezza: le persone che vivono nel mio paese di origine hanno il dono della sincera accoglienza e la naturale capacità di accudire con generosità. Il viandante curioso potrà provarlo da sé. I centri storici, per ora quiescenti, possono ritornare a vivere…e non solo nella fantasia! Basterà ritrovare il capo di un filo dalle lunghe storie.
Nei due brevi racconti, tra loro interconnessi, viene fuori la sensibilità dell‘inverosimile Arianna (e il nome non è casuale) protagonista di un’onirica modernità, in un viaggio illusorio tra luoghi e non luoghi (San Marco Argentano e ‘visioni’ da Bosch, Bruegel,Escher). Questi due brevi viaggi nella memoria di Arianna (non luogo) attraversano dei luoghi fisici, percepiti attraverso dei ‘sensori multimediali’ di un museo alternativo che incanta e stupisce.
Nel primo c‘è la presa di coscienza, attraverso gli occhi di un bambino che immagina di vedere ciò che non c’è dall’alto di una torre, come se l’assetto urbano fungesse da cartina tornasole della speranza di continuare a vedere quello che potrebbe esserci. Ma a volte la fantasia non è sufficiente.
Nel secondo, Arianna sceglie una visita immersiva in un quadro di Escher, una delle sue inverosimili ‘stanze nelle stanze’, popolato da persone che difficilmente si incontreranno tra loro in un gioco nel quale la stessa protagonista entrerà a far parte.
Racconti di memoria urbana e spaziale
Il museo apre presto e chiude in tarda serata, dal giorno dell’inaugurazione credo che Arianna ci sia stata almeno una ventina di volte.
La caratteristica singolare dei sensori visuali che performano le sensazioni e le esperienze l’ha catturata da subito, riportandola più volte in quel posto magico. In fila prima di lei cinque persone.
Da dietro il vetro temperato scuro le arriva solo una voce amplificata: “Ecco il resto, prenda il casco alla sua sinistra e buona visione”. Arianna prende il casco e da questo momento sarà lei stessa a ‘parlare’ e a descrivere quello che le accade…
Infilo il casco: “Paese/città/metropoli”, scelgo con il solo movimento delle palpebre: “PAESE” e inizio il mio viaggio da seduta.
URBANIA DALL’ALTO
A raccontarlo è una voce di bambino, intervallata da una leggera musica di flauto traverso.
Un dedalo di stradine. Riusciva a vederle dall’alto della torre: la mente, ad ogni spostamento, ricostruiva profili antropomorfi, donne sdraiate, sirene e animali fantastici, così come accade di solito con le nuvole. Se quella visione urbana ricomponeva per gioco le forme più svariate, immaginò che le case, le stradine e gli spazi visti dall’alto, fossero i veri abitanti di un paesino ormai svuotato. Una specie di incantesimo sospeso, segno atavico di una realtà contrastata e quasi onirica.
E se le sue visioni fossero reali? Se la gente e i luoghi fossero la stessa cosa?
La gente fa il luogo e il luogo ha bisogno della gente e se la gente non c’è il paesaggio stesso ne immagina l’esistenza.
La stranezza fu il cambiamento continuo di quella particolare percezione. Le immagini antropomorfe comparivano per un breve attimo, al tentativo di rivedere l’ultima ricostruzione visiva si trovava di fronte a un’evoluzione di quelle immagini. Le scalette che scendevano rappresentarono per un breve istante i piedi accompagnati dalle gambe sinuose di due difformi stradine e poi diventarono tentacoli di piovre in movimento, per trasformarsi in capigliature agitate e scomposte. Guardò dall’altro lato, verso ovest, con difficoltà perché il vento negli occhi fu per un attimo sabbia pungente. Le figure si nascosero ai suoi occhi per un solo attimo e, quasi fossero d’accordo tra loro, spuntarono di nuovo a fare scherzi. Un uomo e una donna che correvano, un cane sdraiato, una signora dalla gonna lunga seduta.
“Marco!!!Dove sei?”
“Sono qui”
“Vieni scendiamo, hai visto che bello il paese visto da qui?
“Sì, papà, è pieno di gente”.
Il papà lo prese per mano e scesero fino a raggiungere la stradina nel vicolo accanto.
“Attento, qui c’è la signora con la gonna lunga!…”.
Per strada l’eco del passato…
Una voce mi avvisa che la visione e il racconto sono terminati.
‘Questo particolare viaggio per i luoghi è un movimento unico abbinato in esclusiva ad un solo visitatore: il casco, eccellenza della più moderna tecnologia, riconosce le predisposizioni e le sensazioni degli utenti e riesce a generare un racconto visivo e sonoro assolutamente originale e irripetibile. Potrà a breve scegliere se continuare o abbandonare l’immersione multimediale.’
Decido di continuare e mi lascio catturare dalle immagini del menu che mi scorrono intorno. Fermo il movimento dello scorrimento in corrispondenza della visita immersiva nei quadri d’autore. Seleziono “Escher” e mi ritrovo, senza neppure chiederlo, nella litografia dell’artista che da piccola guardavo sempre nei libri di papà.
IN AND OUT
Il suono della carrucola in movimento annunciò inevitabilmente il mio inaspettato arrivo. La tridimensionalità, espressa abilmente dall’artista, diventò all’improvviso reale, ma la cosa che mi lasciò senza parole, e soprattutto impreparata, fu la partecipazione a un gioco a punti, finalizzato all’uscita dal quadro attraverso una serie di imprevisti e trabocchetti, di quesiti e domande: pena l’assunzione a personaggio definitivo nella litografia. Ormai ero dentro, ma dovevo assolutamente uscirne e, devo confessare, che in quel preciso momento dubitai delle mie stesse capacità per far ritorno al ‘mondo reale’. Non sapevo se avere paura o affrontare le “convesse concavità” a cuor leggero. Le salamandre mi aiutarono a passare dalla fune ai gradini. Per salire dovevo pensare di salire e per scendere dovevo pensare di scendere. Il pensiero si associava alla possibilità di avere una visione biunivoca tra il concavo e il convesso, e i miei occhi erano diventati abili nell’individuare l’uno o l’altro. L’ambiente si presentò ai miei occhi su dieci piani, delimitati da aperture, scale, colonne e botole di passaggio. Dalla scala a pioli mi raggiunse il messo con le regole del gioco.
Pensai che, viste le dimensioni del tomo, potevo considerarmi spacciata.
Fu lui stesso a rassicurarmi dicendomi che era tutta scena per amplificare le aspettative del gioco e che le pagine erano in realtà tutte uguali. Tirai un sospiro di sollievo. Seguì il suono all’unisono di un motivo simil medievale. Guardai verso l’alto e li vidi affacciati alle monofore dei due diversi e inverosimili piani, la donna con il cesto scese verso di me e mi lasciò un quesito da compilare in silenzio. Mi consigliò di esplorare prima gli spazi e poi di procedere alla risoluzione dei quesiti. Salii le scale, oltrepassai il passaggio che mi portò ad avere libera la visuale dalle trifore in alto: una distesa indefinita di case una città ‘litografata’ ma reale. Riuscivo a vedere oltre il quadro di Escher. Non riuscii a discernere cosa fosse reale e cosa falso, quali erano le scale che scendevano e quelle che salivano. Dove iniziava la realtà e dove la finzione?
“Arianna, Arianna” la voce mi giunse prima flebile e poi sempre più chiara e pensai che qualcuno dei presenti in quel saliscendi stava per rivelarmi una chiave per uscire in tempo utile dal quadro. “Scusi, signore, mi potrebbe dire se il primo indizio è legato alla risoluzione dell’enigma della sfinge?”
“Arianna, Arianna, ma che fai parli nel sonno?”
Aprii un occhio e poi l’altro. Sollevai la faccia dal cuscino e incontrai lo sguardo di mia mamma. “Arianna, quando la smetterai di scrivere fino a tardi?”. Solo in quel momento mi fu chiaro che avevo esagerato.