Abitare la città

Ugo La Pietra (Bussi sul Tirino, Pescara, 1938) è tante cose. Rinomato artista, architetto, designer e instancabile sperimentatore, preferisce autodefinirsi “ricercatore nel sistema della comunicazione e delle arti visive”, o piuttosto, “operatore estetico col compito di disequilibrare”. Questo perché, da inventore visionario ed indagatore della realtà, cerca di ripensare il mondo da zero, eliminando in primis i nostri usuali punti di riferimento, come ben espresso nelle sue “Immersioni” degli anni 1967-1972.

Centrali nel suo lavoro sono le innovative ricerche sul rapporto tra individuo e ambiente a cui lavora dagli inizi degli anni 60, attraversando diverse correnti artistiche negli anni a seguire, come l’arte concettuale, l’arte segnica (con il Gruppo del Cenobio) e ambientale, l’arte nel sociale, la narrative art, il cinema d’artista, la nuova scrittura, il neo- eclettismo e il design radicale. Tra i diversi gruppi di cui è fondatore, sempre verso gli anni 60 lo ritroviamo anche come jazzista nella “Kids Stompers Jazz Band”, e nel 73 nei “Global Tools”: una serie di laboratori didattici per la creatività individuale pensati per “architetti, designer e artisti radicali”. In campo artistico ha formulato inoltre l’ipotesi, con Alberto Seassaro, di una “sinestesia tra le arti”, che tenta l’unione di tutte le discipline formali che abbiano come comun denominatore “il segno”, i cui risultati vediamo ne “La Lepre Lunare”.

Uomo all'interno di un uovo

Uomouovosfera, da “Immersioni”, 1968 – Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano

La Pietra ha anche insegnato in numerose cattedre di Architettura e Design in università e accademie d’arte italiane, oltre ad occuparsi di editoria nelle riviste “Domus”, “D’ARS”, “AU” e “Mestieri d’Arte”, della quale è direttore creativo. Ha comunicato il suo lavoro sia come artista che come curatore in moltissime e importanti esposizioni in Italia e all’estero: MoMa di New York, Triennale di Milano, Biennale di Venezia, Museo d’Arte Contemporanea di Lione, Museo FRAC di Orléans, Museo delle Ceramiche di Faenza, Fondazione Mudima di Milano, Museo MA*GA di Gallarate. È vincitore di numerosi premi, tra i quali spicca il “Premio Utopia” da Eugenio Battisti durante il III Congresso Internazionale sulle Utopie (1989) al Teatro Argentina di Roma. Nel 1979 gli viene conferito il Compasso d’Oro per la ricerca e, nel 2016, il Compasso d’Oro alla carriera. Attualmente vive e lavora a Milano.

In questa intervista i suoi attuali argomenti si intrecciano tra una domanda e l’altra. Contestualizzando la società ed in particolare la città in cui viviamo, teniamo conto delle possibilità urbane ed ambientali ancora attualizzabili, anche sotto l’aspetto delle nostre mutate abitudini in questo delicato periodo di epidemia. Ricordando varie mostre e progetti passati, ecco gli aspetti cruciali del contemporaneo, qui messi al vaglio dell’artista.


(Martina Salerno) Dal momento che viviamo entrambi a Milano inizierei da qui. Vorrei riflettere con lei sugli sviluppi di questa città, considerando un’urbanistica che si muove secondo logiche utilitarie, a partire dalle sue riflessioni critiche, presenti ad esempio ne La città scorre ai miei piedi (1973-2015) o ne Il verde risolve (2013-2015). Sebbene negli ultimi anni alcune zone siano state riqualificate in pieno stile “green”, nelle strade e complessivamente nel diffuso pensiero capitalizzato, il verde è concepito come un extra, un beneficio di lusso aggiuntivo e decorativo, un optional e, con questo nuovo approccio progettuale ecologico, come una “riconquista” delle norme ambientali. Prendendo l’esempio del Commutatore (1970), partito da Il sistema disequilibrante (1967), lei tiene a ribadire che è necessario eliminare la definizione, ciò che è già definito, così da creare nuovi nomi, nuove cose. In quanto artista, architetto e designer, ha mai avuto – soprattutto constatando le recenti innovazioni tecnologiche – la sorpresa di individuare nella città urbanizzata oggetti o sistemi nascenti sotto tale concetto di reinvenzione?

(Ugo La Pietra) Creare un nuovo modello di città attraverso una serie di piccole e grandi innovazioni è sempre stato il mio modo di pensare e lavorare. Non solo attraverso tutta una serie di modelli per la comprensione e decodificazione dell’ambiente, ma anche attraverso “modelli progettuali”.

Basterebbe ricordare il mio progetto per la mostra “Italy: the new domestic landscape” del ’72 al MoMA di New York dove ipotizzavo, grazie all’ausilio delle prime strumentazioni audiovisive (videotape) un sistema che metteva in relazione, o in comunicazione, lo spazio domestico con lo spazio urbano, e viceversa (attraverso l’uso del Ciceronelettronico e del Videocomunicatore).

CittaScorrePiedi 1973

La città scorre ai miei piedi, fotomontaggio, 1973 – Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano

Ma le nostre ultime innovazioni tecnologiche potrebbero fare molto, soprattutto se pensiamo ad almeno due grandi lacune o, meglio, carenze progettuali: il sistema di illuminazione – Milano ha diversi modelli di lampioni per ogni strada e piazza (sic!) – e quello dell’informazione.

Nel 1980, nella città di Torino, un accorto assessore all’arredo urbano incaricò Achille Castiglioni per il progetto di illuminazione, Ettore Sottsass per gli abitacoli (gazebi, edicole…) e Ugo La Pietra per l’informazione. In quell’occasione progettai il mio primo sistema di informazione “InformaTorino”, tecnologicamente molto avanzato per l’epoca. Purtroppo i tre progetti, dopo l’incarico formale, non furono portati a termine perché l’Assessore fu condannato e arrestato per “scorrettezze amministrative”…

(M.S.) Questo ragionamento si presta più generalmente al discorso della società urbana che si è venuta a creare, in qualche modo “burocratizzata”, distaccata dal cittadino, dalla persona in sé, come vediamo ad esempio in Città senza morale (2010-14). Con Arte nel sociale (1976-79) reinventa le attrezzature urbane, volgendole da strutture di servizio della città a originali strutture di servizio per lo spazio domestico. Le strutture di servizio urbano generano un’urbanistica asettica ed esercitano un’autorità morale alla quale non possiamo fare altro che obbedire. Ora più che mai, tra queste troviamo la segnaletica adesiva per strada e nei tunnel delle metro, che ci distanzia e ci direziona, ed è l’elemento più lampante ed obbligatorio per chi di noi vive in una metropoli, la quale riprendendo le sue parole include “gradi di libertà” e ci condiziona, ovvero ci offre qualche autonomia, ma “a condizione di”. Ci sarebbero secondo lei alternative, possibilità di scardinare (idealmente o realmente) questo ordinamento, ovvero di renderlo più a misura di cittadino e dunque della collettività?

(U.L.P.) Il superamento dei “codici imposti” della “segnaletica urbana” e dell’informazione urbana fatta esclusivamente di pubblicità è sicuramente possibile! Abbiamo attraversato più di un secolo in cui artisti e architetti hanno cercato di dare risposte a questa immagine di una struttura urbana di “segni imposti” a cui noi reagiamo ormai automaticamente. Riassumo qui di seguito alcune mie vecchie proposte, modelli, progetti e considerazioni:

  1. Arte e design territoriale. Costruire segni dedicati all’identità del territorio, partendo dalle risorse, anche quelle più profonde, come la storia.
  2. Fare arte per il sociale.
  3. Verde urbano. Un tempo si dava importanza a certi luoghi costruiti con il verde: giardini riservati esclusivamente alle divinità, giardini protetti, perché era in seno alla natura che l’uomo poteva avvertire la presenza del divino. Poi ci sono stati i giardini pensati e costruiti “ad arte” (il giardino all’italiana) dove la concettualità si integrava con la spettacolarità (del labirinto, ad esempio). Oggi si dovrebbe fare riferimento a questi modelli, ma il verde in città è costretto a fare i conti con il traffico, con i parcheggi, è soffocato dall’asfalto, è collocato in aiuole con pochi centimetri di terra, è organizzato in “giardinetti” (memori dei tanti giardini dell’Ottocento) dove il verde generico fa da cornice ai monumenti. Troppo spesso il verde urbano è ridotto a strumento per aggiustare, correggere, completare, nascondere, migliorare gli errori e le manchevolezze, le incompetenze di certi architetti/arredatori nell’affrontare i veri problemi dell’ambiente urbano.
  4. La città. Per la gente urbanizzata, la città è un complesso di relazioni sconnesse le cui regole sono definite dal sistema commerciale (si va dove ci sono i negozi, ci si trova dove ci sono i bar-ristoranti); per gli urbanisti la città è fatta di mappe codificate; per i politici la città sono tanti voti. Basterebbe pensare e praticare lo spazio urbano come la “propria casa”, ma avendo da tempo perso l’amore ed il piacere di stare in casa (difatti le ultime generazioni non acquistano più mobili d’arredo) è difficile proporre questo modello abitativo in città.
  5. La storia. La storia delle città non rappresenta più la base per una progettazione. Per esempio la storia di Milano è quella di una città orizzontale (e nascono grattacieli), ed è anche la storia di una città delle acque (e si coprono i Navigli).

(M.S.) Ricollegandoci a quanto detto, non possiamo evitare l’argomento del lockdown. Per suo effetto, ma prima ancora per intrinseche esigenze naturali, uscendo di casa ricerchiamo comunque il nostro comfort “interno”, magari con un caffè o con la compagnia di una persona cara, avendo in qualche modo presente che “abitare è essere ovunque a casa propria”. Nel video da cui riprendo questa citazione, La riappropriazione della città (1977), e nel progetto Interno/Esterno (1977-80), l’intento è infatti quello di portare l’interno all’esterno, cercando di rendere la società più sensibile ed etica, in ascolto con le persone. Ciò non può essere reversibile da esterno a interno: la casa, soprattutto ora, diventa una sorta di rifugio. Ci viene richiesto in primis per la nostra sicurezza di rinchiuderci in quella casa-rifugio che però, come lei sostiene, non si riesce mai a valorizzare abbastanza. Purtroppo solo stando in quarantena ne abbiamo potuto mutare il significato, sebbene un po’ in negativo (per la malinconia proiettata all’esterno), d’altra parte la rivalutiamo in positivo, pensando più attentamente gli interni: l’atmosfera, l’arredamento, gli oggetti, e ogni spazio che abbiamo a disposizione. Cosa è cambiato esattamente per noi all’interno delle nostre case? Cos’è particolarmente funzionale e vivibile in stato di chiusura forzata? Nel contempo, come superare il ridimensionamento dello spazio vitale?

(U.L.P.) Durante la “forzata chiusura” ci siamo resi conto che non potevamo praticare il modello di compenetrazione tra spazio pubblico e spazio privato. D’altro canto, quando non c’era il virus e la conseguente forzata chiusura, tutti i giovani e i meno giovani la sera non rimanevano in casa (come facevano le vecchie generazioni) ma andavano “per la città”. Andavano a stare in città per stare insieme a tante altre persone: “viviamo affollate solitudini”, scrivevo anni fa per descrivere questo fenomeno.

Ora riuscire a conciliare da una parte il mio vecchio modello di comportamento (“abitare è essere ovunque a casa propria”), e dall’altra la pratica che si è sviluppata negli ultimi vent’anni di stare, tutti e tanti, insieme “per stare insieme”, è sicuramente molto difficile. Questi due modelli di comportamento sono completamente saltati per la presenza del virus. Oggi possiamo solo rileggere i modelli che abbiamo praticato cercando di approfittare di questo “terribile momento esistenziale” per riscoprire il senso dell’“abitare in casa”, recuperando anche la vecchia disciplina che si insegnava negli anni 50 alla Facoltà di Architettura, che era proprio “architettura degli interni”, e anche come trovare attraverso l’arredo urbano (ma non quello delle “forniture stradali”!) la possibilità di realizzare spazi abitabili per la sempre più grande folla che, la sera dopo le varie attività quotidiane, non intende rimanere a casa a guardare la TV, ma non ricerca altri modi per “passare il tempo”.

(M.S.) Uno spazio parallelo che abbiamo dovuto rivalorizzare è quello virtuale: internet, luogo sia interno che esterno, e che lei ha affrontato con Memoria bi- tridimensionale (1980), La casa telematica (1983), Naturale/virtuale (1992) e ancor prima di internet stesso con il progetto Il Videocomunicatore (1972). La nostra dimensione personale si modifica anche sotto questo aspetto, non solo in termini di spazio ma anche di tempo, sconvolgendo e rimodellando le nostre abitudini. In questo senso, pare essere questo il campo di sperimentazione prediletto nell’ottica di una radicale riscrittura della nostra routine, e forse rientrando anche un po’ in quella di un neo-eclettismo in versione telematica. Cosa ne pensa?

(U.L.P.) Dal mondo della didattica a quello del lavoro, tutti concordano nella fatale (per non dire naturale) crescita delle attività informatiche e telematiche. Già negli anni 70 con le mie proposte di Casa Telematica (MoMA New York, 1972; Fiera di Milano, 1983) dimostravo, e spesso anticipavo, la nascita e la crescita di questa pratica sociale, economica, culturale. Ma è anche vero che con la mostra “Naturale/Virtuale” alla Triennale di Milano del 1979, e poi con quella del 1992 (“Casa Naturale, casa Virtuale” con Gianfranco Bettetini) mettevo in evidenza che comunque, alla crescita nel mondo virtuale, la nostra società avrebbe opposto altrettante energie per la crescita nel mondo reale.

Ugo La Pietra, “La Casa Telematica”, MoMa di New York, 1972 – Fiera di Milano, 1983
Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano

Oggi ogni cosa sembra sviluppare queste opposizioni! Lo vediamo soprattutto con le nuove generazioni, che da una parte vivono con e per i sistemi tecnologici, e dall’altra trovano nel rapporto con la natura (coltivazioni, allevamenti…) un’alternativa di vita e di lavoro. Purtroppo è la scuola che non sa coltivare le due pratiche descritte. Da sempre le nostre università non sviluppano i “laboratori”: negli ultimi cinquant’anni, da quando facevo lo studente di architettura ad oggi, nessun professore ha mai portato i suoi studenti in un cantiere per vedere, o ancor meglio, costruire insieme un muro di mattoni, oppure vedere una cava, come si estrae una pietra e come la si lavora…

Così pure nelle Accademie di Belle Arti è molto raro, per non dire inconsueto, che il professore faccia fare agli studenti uscite con la possibilità di fare direttamente “esercizi” presso i laboratori artigiani del vetro, del metallo, della ceramica…A fasi alterne, soprattutto l’artista nel futuro scoprirà e riscoprirà il “piacere di fare” e di manipolare, come a fasi alterne si lascerà trascinare dalle più spericolate innovazioni tecnologiche. Tutto sempre rigorosamente dentro la sua “disciplina”.

(M.S.) Per concludere, passiamo appunto al mondo – o al sistema – dell’arte. Il suo video La grande occasione (1973) parla da sé, e ci tiene a sollevare questioni in riferimento all’artista stesso (emergente o affermato che sia), ma soprattutto al suo rapporto con le istituzioni. Soffermandoci su entrambe le figure, quali sono i limiti tuttora immutati che le istituzioni non riescono a risolvere? D’altro canto, quali soluzioni può apporre l’artista per potersi esprimere senza incidenti di percorso di “ordine superiore”?

(U.L.P.) Malgrado i tanti tentativi che si sono avvicendati in questi ultimi decenni, l’artista continua a costruire-demolire-costruire all’interno del sistema. Tutte le sue energie le impegna in questa realtà, chiusa nella logica del “sistema”. Rari sono stati i tentativi di uscirne, poiché una volta usciti, la società non ci riconosce più e quindi il “lavoro” dell’artista perde di valore e significato. Quindi bisogna rimanere nel “sistema”! E così facendo, seguire o opporsi alla logica del mercato, che che cambia continuamente, e crea soprattutto negli ultimi tempi enormi difficoltà di collocamento.

Quasi tutto il nostro mercato nazionale, che rispetto a quello internazionale è medio-basso, e fino a ieri governato da un sistema di gallerie, oggi è completamente saltato a causa della proliferazione delle aste. I nostri Musei non fanno “sistema”, anche perché assolvono a malapena due delle tre fondamentali attività, conservazione e divulgazione, ma non riescono nemmeno ad attivare la terza, e forse più importante: l’acquisizione delle opere. Così l’artista continua ad essere sempre più pressato ad entrare in qualcosa che purtroppo non si può chiamare “sistema”. Ancora oggi agli artisti italiani non resta che seguire le tracce di percorsi, come faceva Piero Manzoni alla fine degli anni 50 quando portava le sue “Linee infinite” (serie “Linee di lunghezza infinita”, 1959) nell’Europa del Nord.

Credits
Courtesy of Simona Cesana, Ugo La Pietra Studio
In copertina: Ugo La Pietra, Sistema disequilibrante, il Commutatore, 1970, modello di Comprensione – www.ugolapietra.com
Immagini tratte dall’Archivio Ugo La Pietra, video provenienti da Youtube