Bread and diamonds

Il faut décourager les arts. Gio Ponti, nel 1957, sosteneva fermamente che «l’architettura vien tanto più bella quanto più si limitano i mezzi dell’architetto. Allora egli opera per disperazione e fa miracoli. Questa è la ‘nascita povera’ delle arti, poi tutto è misteriosamente ricchissimo.»

Negli anni Ottanta del secolo scorso, Yona Friedman inizia la stesura di un saggio che vedrà la pubblicazione ben venticinque anni dopo, non smettendo forse mai di ritenere quell’architettura di sopravvivenza, difesa e custodita dagli architetti scalzi, «un’utopia, per forza di cose, già realizzata.»

Il “generarsi incantevole, manuale” dell’architettura

In Amate l’architettura, Gio Ponti scrive:

Impari, l’ARCHITETTO, dall’artigiano come si ama il mestiere: come è bello fare per farlo. L’arte per l’arte è lì, non è in una forma senza contenuto, ma nella felicità di farla.

[…] L’ARCHITETTO d’oggi, l’Architetto universitario, impari da tutti gli artigiani: impari dal marmista. Impari dal falegname, dallo stuccatore, dal fabbro, da tutti gli operai e gli artigiani

(è bellissimo).

Impari le cose fatte con le mani. Nulla che non sia prima nelle mani.

Parete con attrezzi per lavorare il legno

L’architetto scalzo, a cui si confà Friedman, è una figura che «esisteva ben prima della comparsa degli esperti» e che oggi, soprattutto nel mondo ricco, «si trova nella necessità di riapprendere una parte del suo mestiere.»

Come accuratamente sottolineato dall’autore, nel manoscritto non vi è l’intenzione di attaccare o contrastare l’architettura classica e moderna, quanto la necessità di spianare la strada ad un modo altro di concepire l’edificazione di strutture che debbano accogliere abitanti nei diversi territori della terra e nelle situazioni più disparate. Il percorso professionale di Friedman si è concentrato largamente sul paesaggio antropico del cosiddetto Terzo Mondo; esperienze e studi da cui sono derivate importanti risposte e alternative per una realtà che vede un sempre più complesso rapporto uomo-ambiente.

L’architettura di sopravvivenza

In Breve trattato sull’arte involontaria, Gilles Clément asserisce:

Una parte dell’architettura spetta agli architetti. Un’altra li elude, resiste al progetto del committente e si dispiega spontaneamente sul terreno delle urgenze quotidiane. Quest’architettura di ‘costruzioni elementari’ spetta all’individuo. Si appella al legittimo desiderio di sentirsi racchiusi e riparati. Si serve dei materiali propri al luogo sul quale s’istalla e rivela l’attitudine di ognuno a costruire senza mezzi un edificio utile.

Parete con appesi attrezzi per la coltivazione

L’attitudine ad ideare, comune ad ogni uomo, e la necessità di «un’edificazione utile ed essenziale» sono due aspetti fondamentali nello studio dell’autopianificazione, elaborata da Yona Friedman come un vero e proprio manuale per avvicinare gli individui ad una presa di coscienza effettiva sulla possibilità di progettare i propri ‘spazi di vita’.

L’abitante, una volta assimilato questo metodo che l’aiuta a ideare il progetto della propria abitazione, è quindi diventato il proprio architetto: è diventato autopianificatore.

[…] Con l’autopianificazione siamo in presenza di un atteggiamento diverso: è l’abitante che prende le decisioni, dopo aver imparato un linguaggio. Né la grammatica né l’insegnante prendono parte alla sua decisione, allo stesso modo in cui un insegnante di lingua non è presente quando il suo ex allievo fa uso pratico delle sue conoscenze.

L’architetto- grammatico- insegnante equivale dunque a un docente di lingue, mentre l’architetto che applica la partecipazione dell’abitante equivale a un interprete.

La grammatica dell’architetto

L’autopianificazione si fonda sulla conoscenza di un linguaggio. Questo permette al futuro utente di un edificio, di individuare le proprietà inerenti la concezione del suo piano […] secondo il modo di vivere che intende avere. Questo linguaggio è alla base di un dialogo tra l’abitante e la casa.

[…] È importante fornire all’abitante non delle ricette o esempi, ma la conoscenza di un linguaggio. Una volta acquisita questa conoscenza, tocca a quest’ultimo condurre il dialogo.

Friedman illustra allora una delle primissime funzioni che, a suo parere, dovrebbe appartenere alla professione dell’architetto: scrivere una grammatica e iniziare ad insegnarla, affinché indipendentemente dalla scelta di affidarsi ad un professionista, vi si diffonda una nuova consapevolezza di abitare e usufruire del mondo.

Consapevolezza e cura che passano imprescindibilmente attraverso la conoscenza.

Una vecchia pressa

Gli architetti scalzi e una “coesistenza pacifica” con l’ambiente

L’architettura, agli occhi di un occidentale, non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza […] Il tema di ricerca dell’architettura di sopravvivenza è l’habitat umano, considerato nel significato più ampio del termine. Un’architettura può essere considerata di sopravvivenza se non rende difficili (o piuttosto facilita) la produzione di cibo, l’approvvigionamento di acqua, la protezione climatica, l’organizzazione dei rapporti sociali e la soddisfazione estetica di ciascuno.

Non vi è architettura tradizionale di lunga durata che non rispetti questi criteri: il villaggio mediterraneo, l’isola oceanica […]

Sul finire della trattazione, Friedman riporta brevemente due esperienze professionali che ben condensano quanto affermato tra le pagine del libro:

Qualche tempo fa mi è stato chiesto di proporre il programma didattico di una nuova facoltà di ingegneria edile in un paese povero. Ho allora proposto di inserire nel programma le conoscenze trattate in questo libro: tecniche di comunicazione, tecniche delle costruzioni locali, tecniche di giardinaggio e agricoltura […]

Questo paese ha una delle più grandi bidonville del mondo e necessiterà sicuramente di formare i suoi architetti scalzi. Loro saranno i complementi indispensabili degli attuali architetti di formazione classica; le due professioni sono complementari (il loro pubblico è diverso), ma la facoltà di architetti scalzi dovrà formare in realtà da dieci a venti volte il numero degli studenti della facoltà attuale, visto l’incredibile numero di coloro che hanno bisogno d’aiuto.

Una vecchia ruota di un carro

Riguardo la seconda esperienza, l’autore scrive:

Sempre lo stesso paese ha chiesto un sostegno tecnico internazionale, che solitamente arriva dai paesi industrializzati. Questa volta, su mia proposta, è stato fatto il tentativo inverso: alcuni paesi delle regioni vicine (ancora meno industrializzati, ma che hanno conservato meglio le conoscenze tradizionali) forniscono l’aiuto tecnico di base, inviando semplici artigiani, altamente specializzati perché sanno costruire con il fango seccato, realizzare sistemi di raccolta delle acque e coltivare terra (e giardini).

[…] L’architettura di sopravvivenza si sta già realizzando.

Yona Friedman, per tutta la vita, ha narrato e teorizzato spunti e idee che derivavano da un rapporto diretto con «gli spazi di mondo e società» compartecipi dei suoi progetti.

Come direbbe Gilles Clément:

Di quell’epoca mi resta un enorme bottino. Questo accumulo aveva nell’anima un intero laboratorio. 

 

Il testo raccoglie repertorio fotografico proveniente dalle sale del Museo della civiltà contadina “Dino Bianco”, ospitato presso il Castello Caracciolo di Sammichele di Bari. Tale Istituzione raccoglie una delle più grandi collezioni italiane di oggetti e utensili appartenenti al mondo del lavoro artigianale, per un lasso di tempo che va dal XIX al XX secolo. È difatti nelle piccole realtà rurali che è possibile rintracciare, sino ai tempi più recenti, tracce di convivenza e mescolanza tra gli studi di settore e un sapere ‘manuale’ arcaico.

In copertina: courtesy of Giuseppe Negro, “Bread and diamonds”, 2019, pane, legno bruciato e pigmenti su tavola; cm 49x60x10.

Riferimenti bibliografici

G. Clément, Breve trattato sull’arte involontaria, Quodlibet, Roma 2019.
Y. Friedman, L’architettura di sopravvivenza. Una filosofia della povertà, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
G. Ponti, Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, Rizzoli, Milano 2015.